Archivio blog

sabato 15 febbraio 2020

La prima volta

Fu quando spalancasti il sipario del tuo sorriso
la nostra prima volta.
Davanti a una timida cioccolata calda
in un fumoso bar di periferia.
Suonava un Chet Baker
il suo jazz.

Mi tolsi il cappello della solitudine
troppo a lungo portato:
la tua anima interpretava
 versi e silenzi
che mi abitano
da ere ancestrali.
Ti riconobbi, eri tu:
il mio diapason
da secoli, da millenni.
Mi spogliai di viltà.
La nostra prima volta.
Mi tolsi pure le scarpe delle parole.

Muta restando,
I tuoi occhi erano i miei
Il mio battito, il tuo.

Mi sfilai le calze
in un giro di cucchiaino.
Mi infilai sotto le lenzuola
di tre pasticcini
profumati di marmellata.

Guardavi le mie dita sottili
e nude.
Le intrecciavi alle tue.
Erano le nostre mani
già incollate di argilla
per l’amore che immediatamente
costruivano.

Il nostro primo giorno
siamo stati muratori, ceramisti, scultori
di un impasto di vene e destino.

Il barista portò lo scontrino:
avevamo comprato cioccolata, pasticcini
e qualcosa che si chiama Noi.
La tromba di Chet non ha smesso mai.


venerdì 14 febbraio 2020

Le storie sono il mio pigiama

Le donne che leggono, scrivono o recitano sono pericolose perchè non si annoiano mai, qualunque cosa accada hanno sempre una via di fuga, una poesia che le emoziona, un tramonto, una colonna sonora; se ne infischiano se le fai troppo soffrire perchè loro s'innamorano di un altro libro, hanno voglia di scrivere un'altra storia, interpretare un altro ruolo... e ti abbandonano... perchè nelle storie ci sono altri personaggi su cui accendere i riflettori. E soprattutto ci sono loro, le protagoniste.


sabato 1 febbraio 2020

ANIMA

 Anima, se ti pare che abbastanza
vagabondammo per giungere a sera,
vogliamo entrare nella nostra stanza,
chiuderla, e farci un po’ di primavera?
...
Della più assidua pena, della miseria più dura e nascosta, anima, noi faremo un poema. (U. S

aba)

LEZIONI D'AMORE

Marlene Dietrich amò Edith Piaf per anni.
Per anni Edith Piaf non ricambiò il suo amore.
Forse se ne approfittò.
Marlene per lei fece tutto.
Tutto quello che una divinità può fare per un'altra divinità, se innamorata.
Dall'accompagnarla ai concerti in giro per il mondo, al consolarla nella tragedia, perfino condurla dai suoi infiniti amanti segreti, quelli che riscuotevano quell'amore che a Marlene non toccava.
Una sola cosa fermò l'amore di Marlene.
Lo racconta nella sua autobiografia del 1984: “Quando prese a drogarsi, cessai di esserle fedele.
Era più di quanto potessi sopportare. [...] Ero disperata.
Le droghe non erano pericolose come quelle di oggi - non esisteva l'eroina né altre sostanze altrettanto dannose - ma erano pur sempre droghe e io rinunciai ad aiutarla.
Il mio amore per lei persisteva ma era diventato inutile.
Abbandonai Edith Piaf come una bambina perduta, che si rimpiangerà sempre, che porterò sempre nel profondo del cuore."
Come scrive lei stessa, l'amore che Marlene aveva per Edith non sparì mai.
E come avrebbe potuto? Era lo stesso che la portò a farsi fotografare inginocchiata ai suoi piedi per sistemarle una scarpa proprio il giorno delle sue nozze.
Lei, diva di tutte le dive, che ai suoi piedi, avrebbe avuto per sempre il mondo.
Ma l'amore questo fa, rende uomini tutti gli dei.
Era il 1952, a Parigi.
Il fotografo Nick de Morgoli.
Le fotografie che hanno fatto la storia

#ALDAMERINI

Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio, ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto, ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figlie e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne avevo che venivano e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose.
Insomma, ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò e, morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio, tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio.
Fu lì che credetti di impazzire. Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire.
Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso: mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica a uscire.
Mi ribellai. E fu molto peggio. La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. Non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione? Un po’ per l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in istato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte. Quella scarica senza anestesia.
Dopo qualche giorno, mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a risconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nulla.
E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione.
Il manicomio era sempre saturo di fortissimi odori. Molta gente addirittura orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o che cantava sconce canzoni. Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani raccolte in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là.
In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock. Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento. Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro, perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra. Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo.