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mercoledì 21 dicembre 2016


di Sonia D'Alessio


Il salone era enorme, con una grande vetrata che rifletteva le luci serali in lontananza. L’altezza, vertiginosa: un quinto piano, da cui ammirare il Vesuvio che si stagliava nel cielo dipinto di blu. Noi eravamo mingherline. Così piccole che gli occhi sparavano uno sguardo gigante sul visino. Il nostro albero di Natale, mastodontico; con palline di tanti colori, luci intermittenti e un puntale altissimo. Sul marmo della lunga console, c’era la piramide di struffoli, i cestini con la frutta secca, l’insalata di rinforzo. 

- Sara, Annalisa, andiamo a cantare! 

- Sììììì! 

E così, sedute sul pavimento gelido di quel grande meraviglioso salone, iniziavamo a cantare al buio, illuminate solo dalla luce intermittente dell’albero, un lungo mix di brani di Natale. Li sapevamo tutti. Che atmosfera!! Che bel clima familiare! 

Mamma era in cucina, alle prese con capitone e anguille. Se li era fatti sfuggire come ogni anno, per l’allegria di noi bambine che li avevamo visti scivolare via dal lavello. Poi li aveva riacciuffati per il corridoio e ora li aveva fatti a pezzettoni e messi infarinati nella grande zuppiera; li guardava stremata dalla fatica, con ancora in mano, tutto sporco di sangue, lo straccio di cui si era servita per mantenerli fermi. 

Il culetto si era fatto freddo a star sedute sotto all’albero a cantare. E ci era venuta la curiosità di sbirciare tra i regali e di tastarli, giocando a indovinare. 

Ce n’erano una miriade. Non erano tutti regali veri, molti erano scherzi. Un anno ne contammo, ricordo, 110! C’erano anche vignette satiriche con le nostre foto ritagliate e i baloon. Erano avvolte come pergamene, le avremmo aperte insieme ai doni, dopo il lunghissimo cenone del 24. E avremmo riso a crepapelle! Nei giorni precedenti il Natale si costruivano scherzi, si preparavano drammatizzazioni-sfottò da videoregistrare, si incartavano le cose più assurde. Un anno avevo tastato sotto l’albero i miei regali, erano un po’ troppi. All’apertura poi avrei scoperto che quei disgraziati dei miei fratelli e sorelle avevano incartato oggetti già miei, trafugandoli dai miei cassetti! Ricordo quel regalone enorme che mi aveva tanto incuriosita e tenuta sulle spine: avrei poi ahimè scoperto che i fetentoni mi avevano incartato il pacco intero di carta igienica da 12 rotoli! E ricordo ancora quando spacchettai il mio primo reggiseno, taglia 1: avvampai di vergogna al solo vederlo, credevo non si fosse accorto ancora nessuno di quei due “bottoncini” che mi erano appena spuntati! 

Far parte di una famiglia numerosa è questo. I ricordi sono trecce di pane caldo… 

E ora, vi giuro, avrei tantissima voglia di incollare il naso dietro a quei vetri e ammirare il panorama meraviglioso di quella magica casa al quinto piano al centro di Sarno!

domenica 18 dicembre 2016

Il Book trailer di Cuore2.0 - clicca sul link per vedere il video

https://www.youtube.com/watch?v=qVv_MkWGGcI




TI VOGLIO BENE



Avete 26 e 25 anni. se penso a questi anni trascorsi insieme mi accorgo di quanto mi abbiate arricchita: rivedo il mio pancione, il tallone di Isabella che si muoveva, lo si vedeva a fior di pelle e faceva ridere tutti, e capisco che è come se quel pancione fosse rimasto per sempre pieno: la maternità è qualcosa che ti nutre per sempre, è emozione, ricordi magici, respiro di gratitudine verso la vita, è il pezzo più importante della tua storia. Mi rivedo a cantarvi la ninna, il capezzolo in bocca, quel grondare assurdo di latte a fontana, …a cucirvi i vestitini di carnevale, a prepararvi megafeste di compleanno con le mie torte meravigliose, rivedo le lunghe vacanze al mare a Diamante, i vostri apprendimenti: la letto-scrittura, il nuoto, il pianoforte. Isotta com’era emozionante vederti in piscina, o imparare l’uncinetto con la tua professoressa Anna! Quando penso che ci sono persone che i loro ultimi venti anni non li hanno riempiti con nulla d’importante, nulla che resti davvero, che disseti l’anima, un filo di arianna per avere sempre una bussola, l'orientamento… capisco quale sia il senso della vita. E se poi penso che mentre facevo la mamma mi nutrivo pure d’altro, allora pure oggi – come faccio ogni giorno- voglio ringraziare il cielo. I miei interessi culturali, la mia mente vivace e curiosa, un lavoro che amo e che mi ha dato la possibilità di essere indipendente a 22 anni nel mio paese, in questo paese!!, sono doni. Non sono figlia di ricchi professionisti, vengo da una famiglia numerosa e abbastanza povera, ho perso i genitori, abito in un paese che ti pone molti ostacoli: non ho avuto facilitazioni!! E ancora oggi mi è così difficile trovare persone con cui uscire, avere un dialogo mentale arricchente, condividere qualcosa, avere dove andare… qui non c’è niente. E allora meno male che ho un mondo interiore invece ricchissimo, profondo, fatto di ricordi preziosi filtrati da una fanciullina pascoliana. Meno male che ho imparato a perdonare, in primis me stessa.
“Ho capito che si possono curare le ferite solo quando hai il coraggio di perdonarti, di comprendere la natura fragile e complicata degli esseri umani. Ho aspettato tutta la vita di sentir dire “Ti voglio bene” dalla mia stessa voce, dal mio cuore a me, per comprendere finalmente che non possiamo ricevere amore dagli altri se non ne abbiamo prima ricevuto da noi stessi. Ho appreso che il dolore per la perdita di una persona cara ci pone impietosamente di fronte a noi stessi: tracci il bilancio della tua vita e vai alla riscoperta dei valori essenziali che ne sono guida. Ora so che dobbiamo scavare nel dolore con coraggio per superare le pungenti spine della mente” (dal mio romanzo LASCIA CHE SIA). Grazie, vita!

IL CORPO E LA MENTE

LET IT BE...nulla da cambiare, nessuna guerra da combattere, nessun passato sulle spalle. Non opporre resistenza allo svolgersi degli avvenimenti. Opporre resistenza svuota di energie, prosciuga l'anima, non serve. Fluisci insieme al cambiamento in armonia. Accetta. Amati come sei. Impara a lasciare andare. Vivi il solo ora, solo qui.
Sì, vivi!!

Pizzicalaluna , alias Antoine de Sant-Exupery, ci lascia un'opera immortale: Il piccolo principe













di Sonia D'Alessio

”Il piccolo principe” è un racconto che invita a riflettere, risveglia la mente e il cuore assopiti, specie se lo si legge insieme grandi e piccini. 

Quella di Saint.Exupery è un’opera da leggere e rileggere, da scandagliare come un sub che esplora i fondali marini e ogni volta vi scopre nuove e infinite ricchezze. E’ un’opera senza tempo e per tutte le età, un capolavoro di poesia e di saggezza. 

Nello snodarsi di tante parabole, sono molte le tematiche che il testo propone: la ricchezza (L’uomo d’ affari), l’illusione del potere (il Re), la vanità (il Vanitoso), la viltà (L’ubriacone), gli affetti (la Volpe), la morte corporale (“…sarà una vecchia scorza abbandonata. Non sono tristi le vecchie scorze.”). Le tante facce del prisma della vita. E forse il senso di vivere sta nel godersi le cose più semplici. Ma perché, dobbiamo per forza “riempire” il tempo, magari inseguendo chimere…: la ricchezza, la bellezza, i vizi? Il piccolo principe ci insegna che a chi mantiene intatta la capacità di emozionarsi, quel mondo incontaminato dell’infanzia, può bastare anche solo godersi un tramonto in solitudine. Ma il senso della vita è forse soprattutto nel prendersi cura di chi è più fragile (la Rosa), è nel coltivare i rapporti affettivi (la Volpe), è nel guardare alle cose con l’immaginazione e il cuore: “L’essenziale è invisibile agli occhi…non si vede che col cuore” dirà la volpe. E allora: “Tutte le stelle saranno dei pozzi con una carrucola arrugginita. Tutte le stelle mi verseranno da bere…Tu avrai cinquecento milioni di sonagli, io avrò cinquecento milioni di fontane…” 

Il piccolo principe è la divina poesia che è in ognuno di noi. Attenzione dunque ai baobab: le cose mastodontiche possono cancellare la preziosità di quelle semplici, come il nostro piccolo mondo. Ma forse i baobab rappresentano soprattutto il pericolo di “crescere” irrimediabilmente, l’età adulta capace di spegnere la visione poetica del mondo….chissà… E’ bene che ci rifletta ancora un po’, magari una nuova lettura dell’opera di Pizzicalaluna – questo il soprannome dell’autore per il suo naso che puntava verso l’alto – potrà aprire nuove porte al mio pensare, al mio riflettere, al mio arricchirmi. 

Grazie, piccolo principe.

UNA STORIA DI NATALE (Dal mio romanzo-blog CUORE2.0 ed. Medusa)

Il signor Marvin si era alzato molto presto quel giorno, giacché doveva finire gli ultimi lavori e consegnarli prima del cenone di Natale. Era un ciabattino, Auguste Marvin. Viveva in un piccolo sobborgo londinese dove aveva un’unica stanzetta: casa e bottega. Più che di una casetta si trattava di una cantina sottoposta al livello della strada. I muri così umidi, coperti di muffe verdi. L’intonaco scrostato in molti punti, tanto che potevi intravedere i mattoni. Nell’aria, un pungente odore di colla, di cromatine, di pellami. Un odore che ti manteneva sveglio ma intontito.
Non era la vigilia di Natale per Marvin. Era un giorno qualsiasi. Niente cenone, niente riunioni familiari né pacchetti-regalo né passeggiate tra i negozi. Era un giorno lavorativo e basta. Eppure quella mattina c’era anche odore di Natale. Si spandeva mite per i vicoli, insieme alle note di una fisarmonica che qualcuno suonava. Ogni tanto il calzolaio sentiva persino il rumore di una moneta lanciata da qualche passante in segno di gradimento. Dalla finestrella a lume ingrediente, poteva riconoscere il Natale dal passo della gente: andavano tutti di corsa. Un corteo di scarpe. E il ciabattino le conosceva tutte: il farmacista era appena passato, con i suoi mezzi stivaletti di lucido nero. Marvin glieli aveva riparati già due volte. La portiera del palazzo di fronte, signora Rosa, aveva attraversato la strada con le sue ballerine larghe come barche e il cane volpino al guinzaglio. L’orologiaio del vicolo di fronte, il signor Hellington, camminava strascicando il passo, con le polacchine di camoscio color cammello. Tutti  correvano carichi di pacchetti.
Dalla finestrella Marvin poteva vedere pure due bidoni della mondezza. Il professor Land era andato già tre volte vicino alle due pattumiere: fingeva di buttare qualcosa ma ormai erano mesi, da quando sua moglie aveva voluto il divorzio, che lui cercava oggetti nei rifiuti.
Marvin tossì. L’aria umida non gli faceva di certo bene.
Guardò il suo albero in un angolo: glielo aveva portato la sera innanzi un certo signor Wolfe. Doveva essere polacco, dai tratti somatici. O giù di lì. Gli occhi immobili di un celeste freddo, la barba puntinata di grigio, un cappello di lana fin su alle sopracciglia, i piedi scalzi coperti con due buste di plastica. Aveva mostrato un biglietto, con su scritto con grafia elementare: “Sono muto. Non ho soldi. Possiedo però un abete bellissimo. Permettetemi di pagare con quello…”
Anche senza soldi, Marvin lo avrebbe accontentato, era un brav’uomo. Si trattava di rifare le suole a  un paio di stivali di cuoio rosso, completamente bucati sotto la pianta e senza tacco.
“Io me li ricordo questi cosi” aveva detto tra sé il ciabattino, osservandoli. “Li ho visti accanto al cassonetto dell’immondizia, ieri!”
Avevano un’aria così vissuta! Li aveva presi in consegna e non aveva detto nulla. Il polacco era ritornato dopo un’ora con un abete di media grandezza, tutto spennacchiato. Anche quello Marvin aveva riconosciuto: lo aveva visto la sera prima nel punto-rifiuti.  Il ciabattino aveva passato tutta la serata ad addobbarlo appendendoci scarpe: tutto ciò che possedeva.
Ora non era solo, aveva un albero bellissimo a fargli compagnia. Con scarpette che ciondolavano dai lacci annodati ai rami.
Il Nostro passò tutta la mattinata a lavorare agli stivali rossi; poi, finita l’opera, si stese su un piccolo pagliericcio a riposare e a cercare di calmare la fame.
Nel primo pomeriggio, arrivò il muto a ritirare gli stivali. Si tolse le buste di plastica che aveva, scoprendo due piedi infestati di piaghe e geloni. Si provò gli stivali. Sorrise con orgoglio: perfetti! Stese la mano al calzolaio, in segno di ringraziamento, e uscì in strada.
Marvin l‘osservò dalla finestrella. Camminava timidamente sotto il muro. Poi fu colpito dalla visione di due bambini che frugavano tra l’immondizia. Quello piccolo, vestito assai malamente, aveva trovato una scatoletta di pesce aperta: la leccò affamato. Ma non conteneva più nulla, era solo sporca di tonno. L’altro, assai lungo e con i capelli rossi, trovò una coscia di coniglio morsicata.
Marvin si ricordò che pure lui non aveva ancora toccato cibo. Sentiva un certo languorino allo stomaco. Così, allontanatisi i fanciulli, uscì alla chetichella e raggiunse i due bidoni dell’immondizia, situati proprio di fronte alla sua bottega. Frugò, non c’era proprio nulla. Poi fu colpito da una pallina di Natale, rotta. Era rossa, con uno smile disegnato in una espressione di tristezza. Marvin cominciò a frugare con maggior entusiasmo: avrebbe trovato il pezzo mancante e lo avrebbe incollato. E infatti la cosa andò così. E la pallina riparata fu appesa all’albero, insieme alle scarpe.

Era la notte del Bambinello e nel castello di Mago Merlino erano stati invitati tutti i maghi e le fate che esistono, per una tavola rotonda sul tema della povertà. Merlino aveva un progetto da presentare ai colleghi. Aveva invitato anche Babbo Natale e la Befana, iscritti pure loro all’albo mondiale dei maghi, da quando di recente era stata data loro la laurea ad honorem in scienze occulte e sortilegi.
<<Propongo di donare un po’ di polvere fatata o un tocco di bacchetta o di versare qualche filtro magico su tutti i cumuli d’immondizia delle grandi città. Per un giorno ci priveremo dei nostri poteri magici per trasferirli alle discariche, unico luogo frequentato dai poveri. Voglio che il giorno di Natale sia memorabile specialmente per gli amici meno fortunati.>>
 L’idea era piaciuta a tutti, tranne che a Peretilla, nipote di primo grado della Befana, in quanto figlia di sua sorella Afàna, neolaureata in ingegneria del maleficio e del malocchio, ma ancora sprovvista dell’abilitazione alla professione malense. Peretilla, doveva il suo nome al rumore simile a una scorreggia che faceva la sua scopa volante quando entrava in azione. Merito di suo cugino Malù, che le aveva truccato il motore, utilizzando pezzi di un noto aspirapolvere e pulisci-materasso tedesco. <<Non se ne parla proprio>> aveva squittito  la ragazza. <<Attendo l’abilitazione proprio per oggi. Ho superato il concorso per titoli ed esami; sono stata per anni in graduatoria a fare la precaria con mille piccole supplenzine, e ora che finalmente mi si darà la patente per la navigazione aerea su scopa volante, ora che mi si attiveranno i poteri… dovrei trasferirli ai rifiuti? Non intendo cominciare la mia carriera regalando i mezzi magici agli straccioni! Ho altre ambizioni per il mio futuro!>>
E così aveva abbandonato la seduta, dietro lo stupore generale.

Manca poco alla mezzanotte, dieci minuti. Marvin è andato a dormire digiuno, ma non riesce a prender sonno dalla fame. Di colpo, si leva dal letto, ha sentito una musica bellissima. Mette la sedia sotto la finestrella e ci sale per vedere meglio la strada. È il polacco muto: sta ballando sui suoi stivali ballerini una polka scatenata: sono stivali magici. Non sembra timido né muto né povero. Ma solo un ballerino felice, circondato da spettatori. I suoi abiti d’argento scintillano sotto la luna.
C’è il bimbo di colore che osserva il balletto: regge in braccio un magnifico coniglio bianco come se fosse suo figlio. L’altro invece gusta pesce da una enorme scatola di latta che potrebbe sfamare un esercito, dato che il cibo non finisce mai, ma ricresce all’istante.
Cinque minuti alla mezzanotte. Di colpo, nel cielo sfreccia una scopa spernacchiante. Peretilla, urlando come un’ossessa, lascia cadere sulla strada polvere di carbon di zucchero nero. Il ballerino perde il baricentro e casca. Il coniglio ridiventa una coscetta morsicata, la scatola di latta si rimpicciolisce e ritorna vuota...
Ma Merlino è giunto, a bordo della scopa volante insieme alla Befana. Tre minuti alla mezzanotte.
Sulla slitta di Babbo Natale, trainata dalle renne, ci sono pure la fata Smemorina, Maga Magò, la Fata Turchina.
Dal cielo cade una polvere  fatata. È una nevicata d’oro e d’argento. La mezzanotte suona, ma non è Natale. Non ancora. Il Bambinello attende per nascere.
Merlino punta il dito, da cui parte un potentissimo fulmine: Peretilla viene risucchiata finendo imprigionata nella pallina di cristallo rossa.
Marvin si volta a guardare il suo albero: le scarpe si sono trasformate in salami, formaggi, torroni e cioccolate. La pallina ha allargato la bocca in una faccina di sorriso. Fuori, il muto ha ripreso a ballare la polka.
È Natale.  Mezzanotte e un minuto: Gesù è nato ora!




CASA D’ALESSIO: IL TEATRINO NATALIZIO CHE FU


"Chella ca guarda ‘nterra!” allucca Don Peppino, ca port ‘o cartellone.


“Allora è sei!” le fa a copp a’ mana Nunziatina, appontanno ‘no fasule ‘ncopp ‘a cartella.


“Terno! Terno!”: a Zibacchiell nisciune a rrepar, ha schizzat comme a n’anguilla, ‘a pupatella!


“Aèè, guaglionce’ già hai accumminciate cu ‘nu sirice tant!”


“Ma l’hai chiammat ‘o 34? Cà s’hanno spostat tutt ’e fasule!” s’allammenta zia Gloria.


“E tu tiene ‘u ninnill mbraccia! Chillo tene ‘a manella ‘e ‘nu riavolo!”


“Marò, guagliù, se sent ancora addore ro’ capitone fritto e ro’ baccalà pe’ tutta ‘a casa!” mormolea cacchirune.


“Azz… e ra’ menesta ‘e Natale, no?”


“Zitt! Jamm appriess, no’ facite tutto ‘stu burdello, je nun ce capisco niente”


“E spilete ‘e recchie”


Don Peppino: “No’ vi distraete, asciute ‘a guallera”


“40!”


“Ma possibbile ca je nun aggio mise manco nu nummero?” chiagne e s’allamenta Soniuccia. “M’avite dat ‘e cartelle sfurtunate. Aropp voglio chelle addò sta scritt ‘Niculino’, chelle vecchie e cunzumate”


“Guagliù ‘a mano è libbera. Trenta!” fa don Peppino.


“…e palle do’ tenente!”


“M’aggia fa’ ‘na rattata, ca nun aggio mise manco ‘nu nummero” allucca Niculino. “Avuot ‘sto panaro!”


“Chest è ‘a man e chist è u culo do’ panaro….Vintune, ‘a femmena annura!”


“Quaterna” se ne esce toma toma zia Rita.


“Avilloca, zitta zitta ha mpizzat tutte ‘e nummer!”


“Tiè, so’ triciento lire”


“Accussì poco?”


“ e che vuo’! Avite vulut fa’ vint lire a cartella, ‘sti pirucchiuse!”


Don Peppino se sose: “Aggio fa’ nu giro attuorno a seggia, pe’ cagnà ‘a furtuna” e se mette a girà.


“Piccolì, puort duie struffol, ca portano furtuna, jamm già pe’ quintina”


Piccolina nun so fa dicere doie vote. A vide e purtà ‘na guantiera ‘e struffole a cuppolone.


“Facite spazio ‘ncoppa ‘a tavola!”


Quant’è bella e sorridente ‘a patrona ‘e casa! ‘o marito se mett a cantà ‘a canzona do’ capitone: “Primme ‘e tutto nun saccio si o sapite ma muglierema è nu muorzo sapurite…. E si vedite che mmuina, che fracasso e che rivuoto, â succies ‘a rivoluzzìone tutt pe’ mezzo ro’ capitone!”


‘A tavulata ride e canta. E mane arrobbano i struffoli e pe’ tramente don Peppino allucca: “Guagliù ‘a mano è libbera! È asciuto ‘Onna Pereta fore ‘o balcone, 43! ‘O cantero, vintisette! Comme ‘o vuot e comme ‘o gir, sissantanove! Sissantotto, ‘a zuppa cotta!”


“Basta a me!” fa Norma.


“Ih chi culo!” mormolea ‘ntussecat Niculino, ca nun vo’ mai perdere.


“Jamm pe’ tombola, mo vaco veloce” dice don Peppino. “L’omme ‘e merda, Sittantuno. Ottantacinque, ll’aneme ‘o priatorio. Ottantadoie, ‘a tavula ‘mbandita.”


“Tombolaaaaaa!” allucca Saretta, a cchiù piccerella.


“Che mazzo scassato!”


“E mo jocamm a sette e mezzo e po’ a rubamazzetto, e po’ Soniuccia ce recita ‘a livella!”

23 novembre 1980 (da LASCIA CHE SIA di Sonia D'Alessio, capitolo X)


LA CATASTROFE

Era ormai Autunno. Le 19,34 di una domenica del 23 Novembre 1980. Ero in piazza Marconi con gli amici, quando di colpo sentimmo un boato gigantesco, il rumore di oggetti che si rompevano. E la terra si aprì. Vidi il palazzo dell’Americano, quello che ancora si affaccia sulla piazza, ballare avanti e indietro, oscillando come un ubriaco. Mi parve un tempo interminabile. Novanta  secondi, seppi dopo. Due scosse del nono grado della scala Mercalli avevano colpito Campania e  Basilicata. Oltre 2.914 morti, 8.848 feriti, 280.000 senza tetto. Furono cancellate più di 77mila costruzioni... interi paesi scomparvero in pochi istanti.
Le tre province maggiormente sinistrate furono quelle di Avellino, Salerno e Potenza. Eventi così, scrissero poi i giornali, secondo l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, si succedono nel tempo con frequenza di circa 2000 anni.
La gente correva terrorizzata. Piangeva, urlava, cadeva. Mi ritrovai a correre anch’io nelle villette vecchie, che non avevano ai bordi palazzi alti e dove, perciò, ci sentivamo più al sicuro.

Pensai alla mia famiglia: erano morti? Corsi a casa, ora che la terra finalmente si era fermata. I miei fratelli, sorelle,  genitori  erano vivi. Li riabbracciai. Raccattammo qualche coperta. Mia madre prese oro, soldi, documenti. Io, una radiolina. Fuggimmo. Continue scosse si susseguirono per tutta la notte. Dormimmo nella Fiat 127 bianca di papà, parcheggiata in uno spiazzo. Che gelo! Di colpo, faceva freddo. Un freddo da intirizzire le ossa. Al mattino, mia madre tornò a casa a prendere il latte in frigo per i suoi figli.
La gente trascorreva le ore a piangere, non si avevano notizie certe sull’entità del disastro, i collegamenti erano interrotti.
Trascorremmo la seconda notte in un casolare in aperta campagna. Per stare tutti uniti! Nascevano storie di solidarietà: un contadino, a noi sconosciuto, ospitò tanta gente. Ricordo che mangiammo patate arrostite nel camino.
(...)

Era il 25 novembre, mi recai al giornale. L'allora Capo dello Stato Sandro Pertini, nonostante il parere contrario del presidente del Consiglio Forlani e altri ministri e consiglieri, era accorso in elicottero sui luoghi della tragedia.
“Di ritorno dall'Irpinia, il presidente, rivolgendosi agli italiani a mezzo Tv, denuncia con forza il ritardo e le inadempienze dei soccorsi” scrissi sul mio giornale. I soccorsi  sarebbero arrivati in tutte le zone colpite solo dopo cinque giorni
A Sarno,  per fortuna, non c’erano stati morti ma le scosse di assestamento continuavano e qualsiasi edificio poteva cedere, giacché tutti erano stati danneggiati.
Gli sfollati si erano accampati nelle palestre e nelle scuole. Molti avevano crisi di panico.
Io e la mia famiglia, a parte la paura iniziale che ci aveva visti fuggire e ripararci insieme agli altri nei casolari i primi due giorni, potemmo fare ritorno alla masseria, che era un luogo tutto sommato abbastanza sicuro.
Io lavoravo di lena.
 La Campania sembrava un paese in guerra. Le ruspe scavavano tra le macerie, gli elicotteri sorvolavano di continuo i paesi distrutti, i militari con cani addestrati setacciavano i luoghi dei crolli. E poi c’erano tanti, ma tanti volontari giunti da ogni parte del mondo.
 Ma pure gli sciacalli.
Anche la masseria della mia famiglia  era stata setacciata da cima a fondo da questi approfittatori, mentre noi eravamo ospiti a Roma, da una zia. Il corredo delle mie sorelle Filomena e Concettina, nella cassapanca in legno di noce, non c’era più. Sparite le collezioni di monete e francobolli di mio fratello Tonino. I ladri si intrufolavano nelle case disastrate per rubare ogni sorta di cosa.
Molti paesi avevano mandato sia soldi per la ricostruzione, sia unità militari e personale specializzato. Erano arrivati i container per i senzatetto. Supponevo che Maya abitasse  in uno di questi, perché la sua casa era assai disastrata. Ma di lei avevo perso ormai ogni traccia.
Ritornai al bar di Roberta, deciso ad avere sue notizie: il locale era abbandonato perché inagibile. Era impressionante vedere come i movimenti ondulatori e sussultori del terremoto avessero impresso la loro forma al marciapiede, che ora appariva a forma di onda: tanto che la saracinesca non poteva più chiudersi.

La mia famiglia era ritornata a casa, nella masseria di Lavorate. Io c’ero poco. Ormai abitavo, si può dire, al giornale.
(...)
In quei giorni si cominciò a parlare di speculazione sulla tragedia,  iniziarono  inchieste della magistratura, si coniarono nuovi vocaboli: Irpiniagate, Terremotopoli, per raccontare il terremoto infinito. Il numero dei comuni colpiti fu enormemente esteso per trasformare il disastro in un colossale affare gestito da fameliche congreghe di politici e malavita. Alle aree colpite venivano destinati numerosi contributi pubblici (stime del 2000 parlano di 5.640 miliardi di lire nel corso degli anni), e i ras locali erano fortemente interessati a far sì che i territori amministrati venissero inclusi in quest'area. Crescevano la corruzione, le inchieste, gli scandali. E il lavoro di noi giornalisti. Fu allora che decisi di scrivere  il mio primo libro. Ormai ne sapevo abbastanza per mettere mano ad un dossier sul post terremoto.
 La ricostruzione poi è finita com’è finita. Nonostante l'ingente quantità di denaro pubblico versato, è stata per decenni l’eterna incompiuta. Proprio come l’ultima sinfonia di Schubert. L’inchiesta “Mani sul terremoto  vide implicate  centinaia di persone. Sul coinvolgimento di politici, tecnici e amministratori, si levarono numerose denunce e furono  promosse numerose inchieste che  portarono ad arresti clamorosi.






La funzione del gioco

Quanti giochi ricordano i nostri nonni? Intervistati, ci hanno fatto un lungo elenco: 'a mamma a zompà 'ncuollo, 'a mazza e u pivezo, 'a strascia, 'o spaccastrummolo, 'u singo a bbarracca, 'o cappottone, 'a tappa, a bbotamano e abbotancielo, 'o carritiello, t'alliscio e te foco, eccetera. Beh, molti di questi sono stati purtroppo dimenticati, altri sono giunti sino a noi in forme nuove, evolvendosi di pari passo coi tempi e le condizioni economiche. Ciò che invece non è mutata è la funzione del gioco; quest’ultimo rappresenta l’ occasione di rapportarsi con gli altri, dominarsi, imparare a conoscere il proprio carattere, organizzarsi in gruppi. Nel linguaggio corrente la parola "gioco" indica un'attività gratuita, più o meno fittizia, che procura un piacere di tipo particolare. “L'uomo è pienamente tale solo quando gioca”, dice Schiller, perché si ritrova e si conosce: giocando, infatti, ogni individuo ha la possibilità di scaricare la propria istintualità ed emotività. Il gioco è innanzitutto esercizio: pensate al bimbo di pochi mesi che afferra e poi lascia cadere un giocattolo. Egli compie un esercizio: fa lavorare il braccio, l’occhio, l’orecchio, calcola le distanze, (e intanto con la lallazione si esercita pure a parlare!). Il gioco serve anche a consumare energie e scaricare l’aggressività; pensate al gioco della lotta, tanto amato dai maschietti! Il gioco è inoltre conoscenza quando si fanno calcoli, si ragiona, si risolvono problemi. E’ imitazione: pensate al gioco dei mestieri. Infine è fantasia. Ma se giocare è una tendenza innata, le modalità invece variano in base a esperienze culturali, sociali e ambientali. Ad esempio, nell’odierna società industriale più che i giochi sociali prevalgono i giocattoli, che sono di serie, realizzati in plastica, sonori ed elettronici. Ma soprattutto sono quasi sempre i genitori a sceglierli, nella prospettiva di introdurre il bambino nel ruolo sociale che rivestirà da grande. E’ venuto un po’ a mancare il gusto della creazione, della scoperta, dell’invenzione. Il fanciullo è oggi, nella maggior parte dei casi, un semplice proprietario di giochi. L’attività ludica dunque svolge una funzione strutturante dell’intera personalità perché favorisce lo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale. Perciò deve coinvolgere in prima persona sia i genitori che gli educatori. Essi devono trovare il tempo da dedicare al gioco per dare ai ragazzi l'opportunità di misurare e sviluppare le proprie risorse e le proprie potenzialità e perché è stato dimostrato che la capacità di giocare da parte degli educatori con i fanciulli garantisce a questi ultimi anche una sensazione di benessere psichico. E' necessario perciò garantire e restituire ai bambini il tempo e lo spazio per dare libero sfogo a tutte le loro pulsioni interne e assicurare loro una certa complicità, senza svestirsi del ruolo di guide. E dunque l’attività ludica deve coinvolgere anche gli enti territoriali che si devono attivare per predisporre spazi idonei all’intrattenimento e al gioco. Oggi a livello internazionale viene affermato il diritto al gioco del bambino perchè bisogno prevalente e vitale di ordine fisiologico, psichico, spirituale e sociale. Ci auguriamo perciò che tutto questo interesse verso le esigenze del mondo dell’infanzia trovi come corrispettivo anche un adeguato e pratico impegno sociale e politico nella creazione di spazi e di infrastrutture sempre più rispondenti alle richieste ludiche dei bambini