LA CATASTROFE
Era
ormai Autunno. Le 19,34 di una domenica del 23 Novembre 1980. Ero in piazza
Marconi con gli amici, quando di colpo sentimmo un boato gigantesco, il rumore
di oggetti che si rompevano. E la terra si aprì. Vidi il palazzo
dell’Americano, quello che ancora si affaccia sulla piazza, ballare avanti e
indietro, oscillando come un ubriaco. Mi parve un tempo interminabile. Novanta secondi, seppi dopo. Due scosse del nono grado
della scala Mercalli avevano colpito Campania e Basilicata. Oltre 2.914 morti, 8.848 feriti,
280.000 senza tetto. Furono cancellate più di 77mila costruzioni... interi
paesi scomparvero in pochi istanti.
Le
tre province maggiormente sinistrate furono quelle di Avellino, Salerno e
Potenza. Eventi così, scrissero poi i giornali, secondo l’Istituto
Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, si succedono nel tempo con
frequenza di circa 2000 anni.
La
gente correva terrorizzata. Piangeva, urlava, cadeva. Mi ritrovai a correre
anch’io nelle villette vecchie, che non avevano ai bordi palazzi alti e dove,
perciò, ci sentivamo più al sicuro.
Pensai
alla mia famiglia: erano morti? Corsi a casa, ora che la terra finalmente si
era fermata. I miei fratelli, sorelle, genitori
erano vivi. Li riabbracciai. Raccattammo qualche coperta. Mia madre
prese oro, soldi, documenti. Io, una radiolina. Fuggimmo. Continue scosse si
susseguirono per tutta la notte. Dormimmo nella Fiat 127 bianca di papà, parcheggiata
in uno spiazzo. Che gelo! Di colpo, faceva freddo. Un freddo da intirizzire le
ossa. Al mattino, mia madre tornò a casa a prendere il latte in frigo per i
suoi figli.
La
gente trascorreva le ore a piangere, non si avevano notizie certe sull’entità
del disastro, i collegamenti erano interrotti.
Trascorremmo
la seconda notte in un casolare in aperta campagna. Per stare tutti uniti! Nascevano
storie di solidarietà: un contadino, a noi sconosciuto, ospitò tanta gente.
Ricordo che mangiammo patate arrostite nel camino.
(...)
Era
il 25 novembre, mi recai al giornale. L'allora Capo dello Stato Sandro Pertini,
nonostante il parere contrario del presidente del
Consiglio Forlani e altri ministri e consiglieri, era
accorso in elicottero sui luoghi della tragedia.
“Di
ritorno dall'Irpinia, il presidente, rivolgendosi agli italiani a mezzo Tv, denuncia
con forza il ritardo e le inadempienze dei soccorsi” scrissi sul mio giornale.
I soccorsi sarebbero arrivati in tutte
le zone colpite solo dopo cinque giorni
A
Sarno, per fortuna, non c’erano stati
morti ma le scosse di assestamento continuavano e qualsiasi edificio poteva
cedere, giacché tutti erano stati danneggiati.
Gli
sfollati si erano accampati nelle palestre e nelle scuole. Molti avevano crisi
di panico.
Io
e la mia famiglia, a parte la paura iniziale che ci aveva visti fuggire e
ripararci insieme agli altri nei casolari i primi due giorni, potemmo fare
ritorno alla masseria, che era un luogo tutto sommato abbastanza sicuro.
Io
lavoravo di lena.
La Campania sembrava un paese in guerra. Le
ruspe scavavano tra le macerie, gli elicotteri sorvolavano di continuo i paesi
distrutti, i militari con cani addestrati setacciavano i luoghi dei crolli. E
poi c’erano tanti, ma tanti volontari giunti da ogni parte del mondo.
Ma pure gli sciacalli.
Anche
la masseria della mia famiglia era stata
setacciata da cima a fondo da questi approfittatori, mentre noi eravamo ospiti
a Roma, da una zia. Il corredo delle mie sorelle Filomena e Concettina, nella
cassapanca in legno di noce, non c’era più. Sparite le collezioni di monete e
francobolli di mio fratello Tonino. I ladri si intrufolavano nelle case
disastrate per rubare ogni sorta di cosa.
Molti
paesi avevano mandato sia soldi per la ricostruzione, sia unità militari e
personale specializzato. Erano arrivati i container per i senzatetto. Supponevo
che Maya abitasse in uno di questi,
perché la sua casa era assai disastrata. Ma di lei avevo perso ormai ogni
traccia.
Ritornai
al bar di Roberta, deciso ad avere sue notizie: il locale era abbandonato
perché inagibile. Era impressionante vedere come i movimenti ondulatori e
sussultori del terremoto avessero impresso la loro forma al marciapiede, che
ora appariva a forma di onda: tanto che la saracinesca non poteva più
chiudersi.
La
mia famiglia era ritornata a casa, nella masseria di Lavorate. Io c’ero poco. Ormai
abitavo, si può dire, al giornale.
(...)
In
quei giorni si cominciò a parlare di speculazione sulla tragedia, iniziarono inchieste della magistratura, si coniarono
nuovi vocaboli: Irpiniagate, Terremotopoli, per raccontare il terremoto
infinito. Il numero dei comuni colpiti fu enormemente esteso per trasformare il
disastro in un colossale affare gestito da fameliche congreghe di politici e
malavita. Alle aree colpite venivano destinati numerosi contributi pubblici
(stime del 2000 parlano di 5.640 miliardi di lire nel corso degli anni), e i ras
locali erano fortemente interessati a far sì che i territori amministrati venissero
inclusi in quest'area. Crescevano la corruzione, le inchieste, gli scandali. E il
lavoro di noi giornalisti. Fu allora che decisi di scrivere il mio primo libro. Ormai ne sapevo abbastanza
per mettere mano ad un dossier sul post terremoto.
La ricostruzione poi è finita com’è finita. Nonostante
l'ingente quantità di denaro pubblico versato, è stata per decenni l’eterna
incompiuta. Proprio come l’ultima sinfonia di Schubert. L’inchiesta “Mani sul terremoto” vide implicate centinaia di persone. Sul coinvolgimento di politici,
tecnici e amministratori, si levarono numerose denunce e furono promosse numerose inchieste che portarono ad arresti clamorosi.
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