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domenica 18 dicembre 2016

23 novembre 1980 (da LASCIA CHE SIA di Sonia D'Alessio, capitolo X)


LA CATASTROFE

Era ormai Autunno. Le 19,34 di una domenica del 23 Novembre 1980. Ero in piazza Marconi con gli amici, quando di colpo sentimmo un boato gigantesco, il rumore di oggetti che si rompevano. E la terra si aprì. Vidi il palazzo dell’Americano, quello che ancora si affaccia sulla piazza, ballare avanti e indietro, oscillando come un ubriaco. Mi parve un tempo interminabile. Novanta  secondi, seppi dopo. Due scosse del nono grado della scala Mercalli avevano colpito Campania e  Basilicata. Oltre 2.914 morti, 8.848 feriti, 280.000 senza tetto. Furono cancellate più di 77mila costruzioni... interi paesi scomparvero in pochi istanti.
Le tre province maggiormente sinistrate furono quelle di Avellino, Salerno e Potenza. Eventi così, scrissero poi i giornali, secondo l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, si succedono nel tempo con frequenza di circa 2000 anni.
La gente correva terrorizzata. Piangeva, urlava, cadeva. Mi ritrovai a correre anch’io nelle villette vecchie, che non avevano ai bordi palazzi alti e dove, perciò, ci sentivamo più al sicuro.

Pensai alla mia famiglia: erano morti? Corsi a casa, ora che la terra finalmente si era fermata. I miei fratelli, sorelle,  genitori  erano vivi. Li riabbracciai. Raccattammo qualche coperta. Mia madre prese oro, soldi, documenti. Io, una radiolina. Fuggimmo. Continue scosse si susseguirono per tutta la notte. Dormimmo nella Fiat 127 bianca di papà, parcheggiata in uno spiazzo. Che gelo! Di colpo, faceva freddo. Un freddo da intirizzire le ossa. Al mattino, mia madre tornò a casa a prendere il latte in frigo per i suoi figli.
La gente trascorreva le ore a piangere, non si avevano notizie certe sull’entità del disastro, i collegamenti erano interrotti.
Trascorremmo la seconda notte in un casolare in aperta campagna. Per stare tutti uniti! Nascevano storie di solidarietà: un contadino, a noi sconosciuto, ospitò tanta gente. Ricordo che mangiammo patate arrostite nel camino.
(...)

Era il 25 novembre, mi recai al giornale. L'allora Capo dello Stato Sandro Pertini, nonostante il parere contrario del presidente del Consiglio Forlani e altri ministri e consiglieri, era accorso in elicottero sui luoghi della tragedia.
“Di ritorno dall'Irpinia, il presidente, rivolgendosi agli italiani a mezzo Tv, denuncia con forza il ritardo e le inadempienze dei soccorsi” scrissi sul mio giornale. I soccorsi  sarebbero arrivati in tutte le zone colpite solo dopo cinque giorni
A Sarno,  per fortuna, non c’erano stati morti ma le scosse di assestamento continuavano e qualsiasi edificio poteva cedere, giacché tutti erano stati danneggiati.
Gli sfollati si erano accampati nelle palestre e nelle scuole. Molti avevano crisi di panico.
Io e la mia famiglia, a parte la paura iniziale che ci aveva visti fuggire e ripararci insieme agli altri nei casolari i primi due giorni, potemmo fare ritorno alla masseria, che era un luogo tutto sommato abbastanza sicuro.
Io lavoravo di lena.
 La Campania sembrava un paese in guerra. Le ruspe scavavano tra le macerie, gli elicotteri sorvolavano di continuo i paesi distrutti, i militari con cani addestrati setacciavano i luoghi dei crolli. E poi c’erano tanti, ma tanti volontari giunti da ogni parte del mondo.
 Ma pure gli sciacalli.
Anche la masseria della mia famiglia  era stata setacciata da cima a fondo da questi approfittatori, mentre noi eravamo ospiti a Roma, da una zia. Il corredo delle mie sorelle Filomena e Concettina, nella cassapanca in legno di noce, non c’era più. Sparite le collezioni di monete e francobolli di mio fratello Tonino. I ladri si intrufolavano nelle case disastrate per rubare ogni sorta di cosa.
Molti paesi avevano mandato sia soldi per la ricostruzione, sia unità militari e personale specializzato. Erano arrivati i container per i senzatetto. Supponevo che Maya abitasse  in uno di questi, perché la sua casa era assai disastrata. Ma di lei avevo perso ormai ogni traccia.
Ritornai al bar di Roberta, deciso ad avere sue notizie: il locale era abbandonato perché inagibile. Era impressionante vedere come i movimenti ondulatori e sussultori del terremoto avessero impresso la loro forma al marciapiede, che ora appariva a forma di onda: tanto che la saracinesca non poteva più chiudersi.

La mia famiglia era ritornata a casa, nella masseria di Lavorate. Io c’ero poco. Ormai abitavo, si può dire, al giornale.
(...)
In quei giorni si cominciò a parlare di speculazione sulla tragedia,  iniziarono  inchieste della magistratura, si coniarono nuovi vocaboli: Irpiniagate, Terremotopoli, per raccontare il terremoto infinito. Il numero dei comuni colpiti fu enormemente esteso per trasformare il disastro in un colossale affare gestito da fameliche congreghe di politici e malavita. Alle aree colpite venivano destinati numerosi contributi pubblici (stime del 2000 parlano di 5.640 miliardi di lire nel corso degli anni), e i ras locali erano fortemente interessati a far sì che i territori amministrati venissero inclusi in quest'area. Crescevano la corruzione, le inchieste, gli scandali. E il lavoro di noi giornalisti. Fu allora che decisi di scrivere  il mio primo libro. Ormai ne sapevo abbastanza per mettere mano ad un dossier sul post terremoto.
 La ricostruzione poi è finita com’è finita. Nonostante l'ingente quantità di denaro pubblico versato, è stata per decenni l’eterna incompiuta. Proprio come l’ultima sinfonia di Schubert. L’inchiesta “Mani sul terremoto  vide implicate  centinaia di persone. Sul coinvolgimento di politici, tecnici e amministratori, si levarono numerose denunce e furono  promosse numerose inchieste che  portarono ad arresti clamorosi.






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