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martedì 31 luglio 2012

LA TRILOGIA TRAGICOMICA di Alberto Mario Moriconi. Per riscoprire il primo percorso dell'autore, scomparso di recente

A un anno dalla morte di Alberto Mario Moriconi, la casa editrice Pironti, pubblica una trilogia dell'autore, considerato tra i maggiori del Novecento. "La trilogia tragicomica" - questo il titolo - è costituita da “Dibattito su amore” (1969), “Un carico di mercurio” (1975) e “Decreto sui duelli” (1982), editi da Laterza e ormai da tempo esauriti, ma è arricchita pure da numerosi inediti. Pironti ci permette così di gustare il primo percorso poetico di un grande autore, considerato “uno dei quattro, cinque maggiori del secolo scorso” (Paolo Ruffilli), “il poeta più originale del nostro Novecento” (Claudio Toscani), che “sfugge a ogni possibilità di inquadramento nel panorama della poesia novecentesca” (Elio Gioanola), la cui “sperimentazione di grande originalità nel panorama del nostro Novecento non ha molti esempi che le si possano avvicinare” (Giorgio Patrizi), e il cui linguaggio “ridefinisce i confini del genere "poesia"” (Niva Lorenzini).
"La trilogia moriconiana è una grandiosa mise en scène, tragica e comica, con stupende invenzioni contenutistiche e formali, con vicende "esemplari" e personaggi-simbolo, di ogni tempo, d'ogni luogo, d'ogni genere, illustri e anonimi, della fantasia e della realtà: fra cui e su cui trascorre assiduo il grido e il gemito di Alberto Mario personaggio, che rimpiange o deplora, svela, ammonisce ed esorta, non risparmiando se stesso."
Io Moriconi l'ho conosciuto, quando mi accolse in casa sua, giovane studentessa che sperimentava una tesi di laurea su di lui. Lo ricordo fine e attento, così paziente durante l'intervista, così disponibile. Corro a cercare tra gli scaffali della libreria i testi che lui stesso mi regalò, le sue foto, i ritagli di giornale, la mia tesi rilegata in pelle blu, di cui andavo fiera e che mi portò al raggiungimento del massimo dei voti...Corro a cercare emozioni e ricordi.
Rileggo qualcosa e ritrovo una poesia che tocca l’anima. Come questa dedicata alla donna amata, “Pianto perenne”, in cui il Poeta esprime l’angoscia di veder non tanto invecchiare se stessi, quanto di veder invecchiare chi si ama: “Io non rassegno gli occhi alle tue prime rughe; non rassegno le dita al tuo appassire lene, il sorriso tenero alla Beltà arrendevole, fuggente. Io non rassegno il pensiero a che il suo fulgore Dio disperda prima assai di tant’orrore che s’abbarbica al volto del Suo regno.” - C’è una poesia, una musica, una pittura che toccano i sensi per un mero e dilettoso impressionismo – diceva il Flora - L’arte come poesia, musica, pittura, nasce veramente quando il senso è mutato in una immagine spirituale. - Su questa linea è da interpretare l’itinerario (umano e poetico) del Moriconi, che, dalla concretezza delle sue esperienze di vita e di cultura, fa scaturire figurazioni che si tessono con liricità di sintassi, in un compiuto discorso poetico: legato alla realtà del presente e aperto alle sollecitazioni future. Anche il Moriconi, come ogni altro essere umano, in particolari momenti dell’esistenza, ha sfiorato i precipizi, ma non ha ceduto alla disperazione. La sua vitalità, intesa come vocazione e fede umana, è giunta sempre propizia. E questa vocazione e fede umana gli ha consentito di non iscrivere la sua poesia nel circolo vizioso della forma per la forma, ma di rappresentare, nel loro moto, non nel loro giudizio, tutti gli aspetti dell’uomo. Anche per la poesia del Moriconi è valida l’affermazione del Croce: “Se la poesia è intuizione ed espressione, unità d’immagine e di suono, qual è la materia che prende forma di immagine e di suono? E’ tutto l’uomo che pensa, che vuole, che ama e odia, che è forte e debole, sublime e miserabile, buono e cattivo, nella gioia e nell’ affanno del vivere; e, con l’uomo, identico con l’uomo, tutto l’universo nel perpetuo travaglio del suo divenire” “Ergono al cielo loro torri mobili,/parlano stessa lingua e non s’intendono./Vogliono ricadere accanto a Dio” . Così scrive il Moriconi e i suoi versi talvolta (come in “Vivace ossario” o in “Due dita” ) richiamano quelli più famosi di Salvatore Quasimodo: - “Ognuno sta solo sul cuor della terra/trafitto da un raggio di sole:/ed è subito sera.” L’uomo, pur vivendo in una comunità in costante manifestazione d’assieme, è solo, con il bisogno disperato di comunione: il raggio di sole che lo trafigge esprime la necessità di comunione e la possanza del dolore. Ma incombe la sera della incomunicabilità. Non bisogna dunque conquistare lo spazio; bisogna conquistare noi stessi, per poter parlare la stessa lingua e comprendersi. Soltanto così le “Torri mobili” (ovvero i satelliti che spiano dall’alto la terra; i missili interplanetari che si avventurano nello spazio ecc.) acquisteranno significazione umana e non crolleranno come la biblica torre di Babele. E c’è una costante in Moriconi: il bisogno di ritrovare l’amore, anche come fraternità nel dolore, perché è tragico “stare solo sul cuor della terra”. E quanto più si è in alto, sulla cima desolata e l’abisso di fronte, tanto maggiormente si avverte pungente il bisogno di una mano amica: ”Da' la mano a chi casca, e a chi s’alza, a chi sale pure: e fili aereo su erta fiorita: troverà brulla cima, deserta la vita, sé alto in nulla (così oscillò in culla) E tu dagli la mano prima: la sdegnerà: poi… Poi quella dura fronte, cera madida, bisognerà di due tremule dita.” (Due dita) Uno dei componimenti più toccanti del Moriconi è “La ballata del guano” ( struttura moderna con sfumate reminiscenze di lontani componimenti): la poesia è tale se è mediata, ed in questa ballata il risentimento si è mediato nell’ironia: ”E l’uccello spruzzò il guano nel cappello al peruviano e l’occhietto strizza del culino, sprizza e ride il cormorano.” Il guano, concime costituito da escrementi di uccelli marini, i cormorani, è ammassato sulle isolette rocciose del Perù e del Cile. Raccolto dagli indios e dai meticci, viene esportato e costituisce quasi l’unica fonte di ricchezza per lo stato. E mentre gli indios e i meticci muoiono di tubercolosi e di dissenteria, il cormorano, sacro perché produttore di uno sterco che diventa oro, è lì, divinità intoccabile. La figura dell’adolescente bianco, che muore di dissenteria, è di una tragicità impressionante: steso sullo sterco, il giovane si fonderà con esso, originando altro guano. Questa ballata ci ricorda Neruda che in “Canto generale” rappresenta il bellissimo volo del cormorano, ma poi ferma la sua sensibilità dolente sulla fatica umana della sua gente, una fatica senza riscatto perché è l’uomo che “fruga sterco con le mani cieche” e “raspa la chiarezza dell’escremento…/ e si prosterna in mezzo alle isole/ della fermentazione, come uno schiavo, /salutando le acide riviere/ che incoronano gli uccelli preclari.” Il tema della morte è presente anche nel poemetto “Ape regina”. Il Moriconi ci riporta nell’alveare, dove, dopo il volo nuziale, il maschio mutilato precipita morto, l’ape regina continua a rinnovare la vita, e le api operaie, destinate a perpetua verginità, inseguono ed uccidono gli altri fuchi. L’intimo significato di questa rappresentazione, che è antica come il mondo, vuole affermare il perenne passaggio, vegetale, animale ed umano, della vita nella morte e della morte nella vita. Ed in questo passaggio vi è un punto fermo: l’amore. “Ape regina, Amore : un punto d’oro nell’alto azzurro, una chimera inseguita da un’orda ridente di morituri… e uno uno si è aggiunto alla regina in caldo fuggitiva.” E Francesco Flora, nel “Canto dell’eterno”, scrive: “Tutto muore, per vivere, ogni istante. Ogni cosa è immortale perché muore ne l’attimo e rinasce”. E allora, a buon ragione ha detto di lui Enzo Striano: “….Moriconi è anche ‘maìtre à penser’, come possono e devono esserlo i veri poeti.”
(Sonia D'Alessio 3-4-2011, Facebook)

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