Di Sonia D’Alessio
Lei lo aveva
sempre saputo, il suo destino. Effigiato in quel nome che era come una
condanna. E intagliato in quello di sua madre a cui era legata a filo doppio.
Diana, sua madre, non le aveva mai detto niente. Parlava poco, era una donna
schiva e taciturna; i suoi veri interlocutori non erano gli umani ma, proprio
come la dea dei boschi e della caccia di cui portava il nome, viveva in armonia
con la natura, gli animali, le piante. E conosceva i prodigi fitoterapici.
La gente guardava con sospetto questa donna
sterile che un giorno di colpo aveva visto con una bimba al seguito.
Tutti la sera mettevano dietro alle porte una
scopa di miglio capovolta e appendevano alle finestre sacchetti di sale, per
difendersi dalla janara. Si pensava, in
quel paesino dell’entroterra campano, che la janara, prima di entrare in casa, si
mettesse a contare tutti gli acini di sale o tutti i rametti della scopa e nel
frattempo sopraggiungesse l’alba, sua nemica, e la janara fosse costretta a
ritornare nella propria abitazione.[1]
Lei, Deisi, questo lo sapeva.
Da ragazza aveva udito Mastu Ciccio raccontare
che, dopo la notte del sabato, trovava sempre la sua cavalla sudata e sfinita, quasi
morta, come se fosse stata cavalcata a lungo; i crini della sua criniera erano
raccolti in numerose treccine: solo le janare facevano questo. Sua madre era
una janara.
Da piccola era
accaduto un fatto di cui tutti avevano parlato in paese: era nato un bimbo
deforme e la gente aveva detto che in paese doveva esserci una janara, che si
deliziava a “torcere” i bambini, facendoli piangere per il dolore e causando a
volte la loro deformità. Ma poi tutti avevano esclamato all’unisono: “OGGI è
SABATO!” Perché se si nominavano le janare in un discorso, si scongiurava il
malaugurio con la frase «Oggi è sabato».
Pensavano, in
paese, che la janara entrasse in casa come il vento. Ti accorgevi della sua
visita, perché una invisibile mano gelida ti carezzava il viso!
Era stato così che si erano conosciute. Deisi era
molto piccola e questa era la sua reminiscenza più lontana. Ricordava che sua
madre, la sua vera madre, un giorno aveva pronunciato una frase che pareva una
formula magica: “Janara janara ca ‘e notte me piglie, te piglio po’ vraccio
e te tiro ‘e capille”. Poi, rivolta alla casa di fronte, dove abitavano
Diana con sua sorella Tecea, aveva aggiunto: “Vieni pe’ sale!”.[2] E
il giorno dopo, la loro vicina di casa, questa donna dall’espressione acida e
cattiva, si era presentata con in mano un bicchiere vuoto, chiedendo che le
venisse regalato un po’ di sale: quel giorno la sua mamma naturale era morta.
La piccola orfanella era stata portata in un istituto dove una psicologa
l’aveva fatta disegnare. Lei aveva disegnato il suo nome anagrammato, dove le
“i” erano serpenti, anzi vipere: ISIDE.
E poi un giorno
la signora Diana era venuta con sua sorella Tecea per adottarla.
Era cresciuta
così, Deisi. Con il destino nascosto in quel nome che ricordava Iside; prima, maga
egizia; poi, dea degli inferi, compagna di Osiride, signore dell’aldilà. Era
cresciuta con Diana. E con Tecea, che lei non aveva mai chiamato zia. Aveva un
felice terrore di questa donna ossuta e piatta, che la gente aveva
soprannominato con l’anagramma del suo nome, “Ecate”.
Deisi sapeva che non si sfuggiva al destino di
janara. Con la sua laurea in antropologia, si era fatta una scorpacciata di
letture. Era rimasta colpita dalla storia di Bellezza Orsini processata dal
santo uffizio di Roma nel 1540 perché insegnava, a volare:
“Unguento unguento
mandame a la noce di Benivento
supra acqua et supra ad vento
et supra ad omne maltempo”. [3]
mandame a la noce di Benivento
supra acqua et supra ad vento
et supra ad omne maltempo”. [3]
Quando venti
impetuosi tormentavano l’appennino campano, le due sorelle – Deisi ne era certa
- di notte, dopo essersi cosparse il petto e le ascelle di un unguento fatto di
grasso d’avvoltoio, sangue di nottola e sangue di bambini lattanti, andavano a
spiccare il volo sopra il Torrente Janara: lì il fiume che scorre crea un
piccolo lago, in cui spesso si formano gorghi misteriosi che risucchiano tutto
ciò che si trova in acqua; poi scompaiono. Il suo nome è “r’ wurv d’ ‘r
nfiern”, cioè il “gorgo dell’inferno”, perché di lì si può discendere agli
Inferi, come l’Averno.
Diana e Tecea, lanciandosi
nel vuoto a cavallo di una granata, cioè una scopa costruita con saggina
essiccata, nel momento del balzo, pronunciavano la frase di chi aveva loro
insegnato a volare, Bellezza Orsini:
«Sott’a l’acqua,
sott’a ‘r vient, sott’a la noc d’ Bnvient» [4]
Una janara – Deisi,
da antropologa, lo aveva letto nei documenti dell’Inquisizione - estorceva alle
sue vittime i capelli e i peli pubici, che impastava con altri elementi, come
la cera, sino a formare figure che simbolizzavano l’affatturato, fantoccini che
poi bruciava o trafiggeva.
Queste ed altre
cose sapeva Deisi.
E quando vide
zia Tecea esalare l’ultimo respiro sul letto di morte, seppe che era giunto il
suo momento.
PRIMO FINALE
REALISTICO:
Quella notte, di
nascosto, prese, dal comodino di Diana, un unguento riposto in un vasetto di
crema, si cosparse i giovani seni con cura. Si recò al Ponte Janara con la sua
scopa di saggina, per spiccare il suo primo volo. Ma…
finì nel …. wurv
d’ ‘r nfiern…
SECONDO FINALE
FANTASTICO:
Quella notte, di
nascosto, prese, dal comodino di Diana, un unguento riposto in un vasetto di
crema, si cosparse i giovani seni con cura. Si recò al Ponte Janara con la sua
scopa di saggina, per spiccare il suo primo volo. E …volò volò volò! Poi trascorse
la notte a cavalcare la cavalla di Mastu Ciccio; quasi l’ammazzò. Prima di
lasciarla, fece del crine tante treccine. Si recò poi nella camera da letto di
lui, passando sotto forma di vento; gli soffocò un pochino il petto premendo
forte con le mani: il contadino si rigirava nel letto, in preda all’affanno e a
un senso di oppressione. Accanto, c’era la culla della piccola Irene: Diana
odiava i bambini! Con le due mani le torse forte i polsi, come quando si
strizza il bucato; la bimba avvertì una scossa elettrica, si svegliò, pianse.
Diana scivolò come vento sotto la porta.
Era quasi l’alba: il suo primo giorno da
strega era finito. Era diventata una janara!!
[1]
La scopa per il suo
valore fallico, oppone il potere maschile e fertile a quello femminile e
sterile della janara; i grani di sale sono portatori di vita, poiché un’antica
etimologia connette sal (sale) con Salus (la dea della salute)
[2] Pare che, per scoprire
l’identità della Janara, ci fosse anche uno strano
rituale in uso in particolar modo nelle zone dell’alto casertano, bisognava
riempire un bicchiere di sale, gettarne un pizzico in terra e pronunciare la
frase “Vieni pe’ sale“, in questo modo la donna si sarebbe dovuta
presentare all’indomani chiedendo, appunto, un bicchiere di sale!
[3] …Stremata dalle torture,
Bellezza Orsini per evitare il rogo, si uccise in carcere, colpendosi
ripetutamente la gola con un chiodo.
[4] (“Sotto l’acqua e nel vento,
sotto il noce di Benevento”) Formula magica che molte donne accusate di
stregoneria riferirono durante i processi
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