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lunedì 6 febbraio 2017

OGGI é SABATO! Una storia di streghe e di paura (Tratto da: C'era una volta - Autori Vari)





Di Sonia D’Alessio


Lei lo aveva sempre saputo, il suo destino. Effigiato in quel nome che era come una condanna. E intagliato in quello di sua madre a cui era legata a filo doppio. Diana, sua madre, non le aveva mai detto niente. Parlava poco, era una donna schiva e taciturna; i suoi veri interlocutori non erano gli umani ma, proprio come la dea dei boschi e della caccia di cui portava il nome, viveva in armonia con la natura, gli animali, le piante. E conosceva i prodigi fitoterapici.
 La gente guardava con sospetto questa donna sterile che un giorno di colpo aveva visto con una bimba al seguito.
 Tutti la sera mettevano dietro alle porte una scopa di miglio capovolta e appendevano alle finestre sacchetti di sale, per difendersi dalla janara.  Si pensava, in quel paesino dell’entroterra campano, che la janara, prima di entrare in casa, si mettesse a contare tutti gli acini di sale o tutti i rametti della scopa e nel frattempo sopraggiungesse l’alba, sua nemica, e la janara fosse costretta a ritornare nella propria abitazione.[1] Lei, Deisi, questo lo sapeva.
 Da ragazza aveva udito Mastu Ciccio raccontare che, dopo la notte del sabato, trovava sempre la sua cavalla sudata e sfinita, quasi morta, come se fosse stata cavalcata a lungo; i crini della sua criniera erano raccolti in numerose treccine: solo le janare facevano questo. Sua madre era una janara.
Da piccola era accaduto un fatto di cui tutti avevano parlato in paese: era nato un bimbo deforme e la gente aveva detto che in paese doveva esserci una janara, che si deliziava a “torcere” i bambini, facendoli piangere per il dolore e causando a volte la loro deformità. Ma poi tutti avevano esclamato all’unisono: “OGGI è SABATO!” Perché se si nominavano le janare in un discorso, si scongiurava il malaugurio con la frase «Oggi è sabato».
Pensavano, in paese, che la janara entrasse in casa come il vento. Ti accorgevi della sua visita, perché una invisibile mano gelida ti carezzava il viso!
 Era stato così che si erano conosciute. Deisi era molto piccola e questa era la sua reminiscenza più lontana. Ricordava che sua madre, la sua vera madre, un giorno aveva pronunciato una frase che pareva una formula magica: “Janara janara ca ‘e notte me piglie, te piglio po’ vraccio e te tiro ‘e capille”. Poi, rivolta alla casa di fronte, dove abitavano Diana con sua sorella Tecea, aveva aggiunto: “Vieni pe’ sale!”.[2] E il giorno dopo, la loro vicina di casa, questa donna dall’espressione acida e cattiva, si era presentata con in mano un bicchiere vuoto, chiedendo che le venisse regalato un po’ di sale: quel giorno la sua mamma naturale era morta. La piccola orfanella era stata portata in un istituto dove una psicologa l’aveva fatta disegnare. Lei aveva disegnato il suo nome anagrammato, dove le “i” erano serpenti, anzi vipere: ISIDE.
E poi un giorno la signora Diana era venuta con sua sorella Tecea per adottarla.
Era cresciuta così, Deisi. Con il destino nascosto in quel nome che ricordava Iside; prima, maga egizia; poi, dea degli inferi, compagna di Osiride, signore dell’aldilà. Era cresciuta con Diana. E con Tecea, che lei non aveva mai chiamato zia. Aveva un felice terrore di questa donna ossuta e piatta, che la gente aveva soprannominato con l’anagramma del suo nome, “Ecate”.
 Deisi sapeva che non si sfuggiva al destino di janara. Con la sua laurea in antropologia, si era fatta una scorpacciata di letture. Era rimasta colpita dalla storia di Bellezza Orsini processata dal santo uffizio di Roma nel 1540 perché insegnava, a volare:
Unguento unguento
mandame a la noce di Benivento
supra acqua et supra ad vento
et supra ad omne maltempo
”. [3]
Quando venti impetuosi tormentavano l’appennino campano, le due sorelle – Deisi ne era certa - di notte, dopo essersi cosparse il petto e le ascelle di un unguento fatto di grasso d’avvoltoio, sangue di nottola e sangue di bambini lattanti, andavano a spiccare il volo sopra il Torrente Janara: lì il fiume che scorre crea un piccolo lago, in cui spesso si formano gorghi misteriosi che risucchiano tutto ciò che si trova in acqua; poi scompaiono. Il suo nome è “r’ wurv d’ ‘r nfiern”, cioè il “gorgo dell’inferno”, perché di lì si può discendere agli Inferi, come l’Averno.
Diana e Tecea, lanciandosi nel vuoto a cavallo di una granata, cioè una scopa costruita con saggina essiccata, nel momento del balzo, pronunciavano la frase di chi aveva loro insegnato a volare, Bellezza Orsini:
«Sott’a l’acqua, sott’a ‘r vient, sott’a la noc d’ Bnvient» [4]
Una janara – Deisi, da antropologa, lo aveva letto nei documenti dell’Inquisizione - estorceva alle sue vittime i capelli e i peli pubici, che impastava con altri elementi, come la cera, sino a formare figure che simbolizzavano l’affatturato, fantoccini che poi bruciava o trafiggeva.
Queste ed altre cose sapeva Deisi.
E quando vide zia Tecea esalare l’ultimo respiro sul letto di morte, seppe che era giunto il suo momento.
PRIMO FINALE REALISTICO:
Quella notte, di nascosto, prese, dal comodino di Diana, un unguento riposto in un vasetto di crema, si cosparse i giovani seni con cura. Si recò al Ponte Janara con la sua scopa di saggina, per spiccare il suo primo volo. Ma…
finì nel …. wurv d’ ‘r nfiern…
SECONDO FINALE FANTASTICO:
Quella notte, di nascosto, prese, dal comodino di Diana, un unguento riposto in un vasetto di crema, si cosparse i giovani seni con cura. Si recò al Ponte Janara con la sua scopa di saggina, per spiccare il suo primo volo. E …volò volò volò! Poi trascorse la notte a cavalcare la cavalla di Mastu Ciccio; quasi l’ammazzò. Prima di lasciarla, fece del crine tante treccine. Si recò poi nella camera da letto di lui, passando sotto forma di vento; gli soffocò un pochino il petto premendo forte con le mani: il contadino si rigirava nel letto, in preda all’affanno e a un senso di oppressione. Accanto, c’era la culla della piccola Irene: Diana odiava i bambini! Con le due mani le torse forte i polsi, come quando si strizza il bucato; la bimba avvertì una scossa elettrica, si svegliò, pianse. Diana scivolò come vento sotto la porta.
 Era quasi l’alba: il suo primo giorno da strega era finito. Era diventata una janara!!





[1] La scopa per il suo valore fallico, oppone il potere maschile e fertile a quello femminile e sterile della janara; i grani di sale sono portatori di vita, poiché un’antica etimologia connette sal (sale) con Salus (la dea della salute)

[2] Pare che, per scoprire l’identità della Janara, ci fosse anche uno strano rituale in uso in particolar modo nelle zone dell’alto casertano, bisognava riempire un bicchiere di sale, gettarne un pizzico in terra e pronunciare la frase “Vieni pe’ sale“, in questo modo la donna si sarebbe dovuta presentare all’indomani chiedendo, appunto, un bicchiere di sale!
[3] …Stremata dalle torture, Bellezza Orsini per evitare il rogo, si uccise in carcere, colpendosi ripetutamente la gola con un chiodo.
[4] (“Sotto l’acqua e nel vento, sotto il noce di Benevento”) Formula magica che molte donne accusate di stregoneria riferirono durante i processi

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